Diving

Secca di Ernesto

Esaminando una mappa dei fondali si nota che le ponziane nord-occidentali poggiano su uno zoccolo comune disseminato di scogli e secche che non raggiunge i 100 metri di profondità, ma poche miglia più a largo già si riscontrano profondità dell’ordine di 500 – 600 metri. All’interno di questa piattaforma sommersa il cui bordo segue più o meno parallelamente il profilo costiero disegnato dalle tre isole a breve distanza dalla costa, sorge la Secca di Ernesto che costituisce dal punto di vista geo-morfologico una grossa scheggia vulcanica emergente su fondale sabbioso circa mezzo miglio a nord-nord-est delle Cattedrali di Palmarola. Scoperta nel 2012, è stata chiamata così dai responsabili del centro subacqueo Ponza Diving Center che hanno voluto onorare lo scrittore e poeta ponzese Ernesto Prudente, personaggio molto conosciuto e stimato, venuto a mancare nel settembre dello stesso anno, che amava passare in solitudine fuori stagione dei lunghi periodi a Palmarola. Con il cappello a -37 metri e il fondo a - 55 e oltre, il tuffo alla Secca di Ernesto presuppone una lunga discesa, che rappresenta sempre un momento di grande aspettativa e forse la parte più emozionante di tutta l’immersione. Si scivola giù a foglia morta, con deboli pinneggiate di “aggiustamento” allo scopo di seguire la direzione della lunghissima cima dell’ancora, diretta obliquamente verso la sommità del torrione, invisibile nei primi metri. Lo sguardo è sempre diretto verso il basso, si cerca di sfondare la cortina azzurra chiedendosi cosa ci sarà laggiù, nella penombra. A volte capita di costruire in pochi istanti con l’immaginazione il grande incontro con l’animale del mare visto solo sui libri e sale quella fervida, elettrizzante voglia di avventura che è propria dell’essere umano. Dopo una quindicina di metri di discesa, ecco apparire la montagna sottomarina, tenebrosa e meravigliosamente inospitale. Via via si delinea sempre più nitidamente: scende dal sommo a gradoni, ricoperta da coltri ininterrotte di alghe brune e puntellata qua e là da gorgonie gialle, che da lontano sembrano tanti candelabri. Prima di atterrare sul fondo, chi ha delle velleità fotografiche farà bene a dare un’ultima occhiata all’attrezzatura: la fotocamera e i lampeggiatori devono essere accesi, programmati sulla giusta potenza e ben posizionati all’estremità dei bracci. Utile è una “passata” con la mano sull’oblò, per spazzare via le indesiderate bolle che sembra vogliano incollarsi ogni volta sul cristallo, lasciate dai compagni d’immersione.
“La foto più bella è la prossima”, pensa spesso chi ha in archivio migliaia di immagini, e la Secca di Ernesto è il posto giusto per il grande scatto.
Quando si è ormai a ridosso del contrafforte roccioso, conviene tenersi larghi rispetto al cappello, perché sui crinali più alti pattugliano quasi sempre grossi dentici e barracuda. Una veduta d’insieme ci regala un paesaggio molto movimentato ma ancora una volta, come in altri siti esaminati in questa guida, il versante più spettacolare è quello settentrionale, scosceso e adorno di paramuricee. Va comunque detto che calcolando i tempi di fondo e la giusta configurazione del profilo d’immersione è possibile girare tutto il monolite. Una strana sensazione che si avverte facilmente esplorando la “piccola – grande” Secca di Ernesto, è che due immersioni uguali non potranno mai verificarsi, anche se si ripercorresse il medesimo itinerario sommerso una seconda volta nello stesso giorno. All’attaccatura delle gorgonie si vedono qua e là i lunghi aculei dei ricci diadema e sono presenti anche i meno diffusi ricci matita. Stupenda la grande spugna orecchio d’elefante (Spongia agaricina). Nelle profonde spacche, vivono gronghi, murene e musdele. Ma comunque, è sufficiente girare l’angolo o illuminare un anfratto per vedere qualcosa di interessante. Basti pensare che non di rado ci si imbatte nel pesce San Pietro (Zeus faber) e addirittura nel pesce luna (Mola mola). Seguendo il versante nord alla nostra destra, superata una vecchia rete tutta concrezionata aggrappata alla parete, conviene scendere fino al confine con la sabbia, a 52 metri, di fronte a un grottino tutto ammantato di spugne gialle della specie Verongia cavernicola, dove c’è un grosso ceppo di ancora romana appoggiato sul fondo. Poi lentamente, in base a quanto pianificato, si rientra in direzione della catena dell’ancora o si avanza ancora fiancheggiando la montagna, ma a quote progressivamente inferiori.


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